Nel convento della Chiesa Nuova ho rintracciato alcuni interessanti dipinti sui quali merita soffermarsi per qualche considerazione critica. Prima di entrare nello specifico vanno fatte però alcune considerazioni: in primo luogo la maggior parte di essi si trova in mediocre stato di conservazione, fatto che ne impedisce una corretta lettura; in secondo luogo, di molti di essi non si è trovata una adeguata documentazione nelle carte d’archivio per poterne ricostruire la storia pregressa; infine si tratta di tutte opere erratiche, avulse dal contesto per il quale furono create.

Nelle “Stanze di S. Filippo” si conserva una pregevole tela raffigurante S. Lorenzo (cm 78 x 21) Fig.1 passato stranamente inosservato dalla critica. Il Ferrara, nella scheda di Soprintendenza (1993) lo attribuisce a Battistello Caracciolo, vedendoci però anche “influssi emiliani alla Lanfranco” e datandolo al terzo decennio del secolo. La tela potrebbe essere quella citata nell’inventario dell’eredità di Andrea Brugiotti (2 settembre 1648) [1], stampatore al servizio dell’Oratorio e amanuense del Baronio, dove farebbe parte di una serie di quattro santi; comunque la nota è piuttosto generica e quindi, a mio avviso, poco attendibile. Sappiamo che Lanfranco (1582- 1647) era un artista noto e stimato dai padri della Congregazione: negli anni 1621-1622 aveva realizzato gli affreschi nel catino absidale della cappella del Crocifisso; subito dopo (1622-1624) aveva affrescato la cappella Sacchetti in San Giovanni dei Fiorentini, chiesa strettamente legata al circuito culturale e religioso dell’Oratorio [2]. Infine i padri della Vallicella nel 1631 lo chiamavano di nuovo per il restauro degli affreschi realizzati nella chiesa meno di dieci anni prima. Quanto sopra detto dimostra che Lanfranco era tra i pittori che in quegli anni gravitavano nell’orbita culturale della Congregazione e quindi è plausibile ipotizzare che sia proprio lui l’autore del quadro. La tela raffigura il santo martire a mezza figura nell’atto di mostrare la graticola. L’iconografia sembra derivare direttamente da un’immagine del santo presente nella Cappella Herrera a San Giacomo degli Spagnoli, cantiere diretto da Annibale Carracci (1602-1607), dove erano presenti Albani e Lanfranco [3]. Lanfranco quindi aveva ben presente l’iconografia carraccesca, di cui probabilmente esisteva anche un disegno preparatorio, e la riprodusse: la cifra stilistica decisamente emiliana, con quella morbidezza nei passaggi chiaroscurali, che non è affatto caravaggesca e ancor meno napoletana, è tipica della sua pittura dei primi anni del terzo decennio, momento cui può datarsi anche il San Lorenzo .
Nella sala antistante l’archivio è posta la grande pala d’altare (cm 363 x 219) raffigurante la Madonna in trono con Bambino ed i SS. Francesco e Cristina, qui trasferita dal coretto antistante la cappella Spada, dove si trovava negli anni ‘90. Fig.2

Nel 1997 la Costamagna, ne faceva un accenno in Roma Sacra ritenendola una copia di Giuseppe Puglia detto il Bastaro, derivata dall’originale di Guido Reni eseguito intorno al 1630 per la chiesa dei Cappuccini di Faenza. Questa ipotesi è stata respinta dal Francucci nella sua recente monografia sull’artista [4]. Non si è certi dell’iconografia della santa in quanto gli attributi del martirio ruota (?) e tenaglia, posti ai suoi piedi, non sono ben leggibili. La tela del Reni andò quasi completamente distrutta durante la seconda guerra mondiale, ne resta solo un frammento con la figura di S. Francesco, quindi la pala del convento della Vallicella ha un’importanza notevole in quanto è la più vicina all’originale e con le identiche misure, tra le diverse copie che ne furono tratte. Per l’impianto compositivo, Reni aveva guardato la pala di Annibale Carracci della Gemaldegalerie di Dresda (1588). Era la prima volta che Guido affrontava il tema di una composizione architettonica con prospettiva rialzata: ”Perfetta armonia triangolare delle tre figure legate in un rapporto sentimentale che pare saldarsi al tono quasi freddo della luce entro l’ampio volume dello spazio”[5]. Per la cronologia, lo stringente confronto stilistico con la Pala della peste della Pinacoteca di Bologna, colloca la datazione agli anni 1630-1632.
Guido aveva dipinto più volte S. Francesco, figura per la quale aveva eseguito diversi disegni preparatori: si veda ad esempio l’incisione di Luca Ciamberlano (1575 ca- 1641) derivata dal disegno di Reni della National Gallery di Washington (inv. 1972, B. 25, 823) e di Windsor Castle, per la figura intera. Non va dimenticato che per l’Ordine dei Cappuccini, Guido eseguì il S. Michele arcangelo per la loro chiesa in via Veneto a Roma. Il Malvasia ricorda che per questi frati l’artista ebbe sempre “tanta venerazione tanto che alla sua morte volle essere vestito “alla cappuccina” [6].
La pala di Faenza è citata anche da Scannelli nel suo Microcosmo. [7] L’impianto compositivo e l’iconografia della grande tela ebbero una certa fortuna, come documentano repliche e copie [8]. In collezione privata si conserva una copia parziale attribuita a Francesco Gessi (ma potrebbe essere di Sirani) con il particolare della Madonna col Bambino, che confermerebbe la mano di un discepolo di Reni per la copia/ replica della Chiesa Nuova [9]. Francesco Gessi, più indipendente dal maestro, ripropose l’impianto della pala di Faenza nel quadro con la Madonna col Bambino ed i SS. Nicola di Bari, Lorenzo e Francesca Romana, per la chiesa di S. Maria dei Poveri a Crevalcore (oggi a Brera). Ad Arcevia, per la collegiata di S. Medardo, Simone Cantarini nel 1642 riutilizzava l’impianto renaniano per la Madonna del Rosario [10]. Nella Pinacoteca Comunale di Cesena esiste una pala seicentesca, praticamente uguale alla nostra, con S. Antonio al posto di S. Cristina; nella stessa città, nella chiesa delle Stimmate, si trova un’altra copia seicentesca, con i SS. Francesco, Agata e Antonio da Padova, di mano di Giovanni Battista Galliani; l’artista ne realizzava un’altra copia con i SS. Francesco e Caterina, oggi a Bologna nell’Archivio Provinciale dei Cappuccini, e forse è ancora di sua mano la pala dell’altare maggiore della chiesa dei Cappuccini di Sant’Agata Feltria. Ercole Graziani (1688-1765) nel Settecento la riproponeva in controparte nella pala con la Madonna col Bambino, S. Irene ed un angelo, oggi nei Museès de Beaux- Arts di Bruxelles.
Purtroppo le vecchie schede ministeriali dicono poco o nulla del nostro dipinto: è certo soltanto che negli anni ’20 del Novecento, il quadro si trovava in chiesa “nel coretto” antistante la cappella Spada, dove è ancora citato nel 1993, durante l’ultima schedatura. E’ molto probabile che la pala, della quale non si è trovata traccia nei documenti d’archivio, sia pervenuta al convento durante le soppressioni ottocentesche, da una chiesa “filippina” dell’Emilia Romagna, area in cui, come si è visto, il soggetto era stato spesso replicato [11]. La mia attribuzione a Andrea Sirani (1610-1670), forse con qualche intervento di mano del Reni, si basa sulla buona qualità della pala, realizzata soltanto qualche anno dopo l’originale, e per lo stile tipicamente reniano di molte sue opere; è noto che la sua abilità nel contraffare la mano del maestro, gli consentì di terminare opere rimaste incompiute. Negli anni ’30 Sirani era attivo nella bottega di Guido, rivelando una “adesione quasi mimetica alla seconda maniera del maestro”. Ricorda il Malvasia: ”ed il Sirani, della fede e discretezza del quale potè francamente assicurarsi (…) in allegerirsi di quella fatica alla quale rendeasi impossibile potesse egli solo resistere, per la quantità delle commissioni che troppo soprabbondavagli”. Risulta inoltre che Guido era in corrispondenza con Padre Ippolito Boncompagni, sacerdote alla Chiesa Nuova di Roma [12].

Frammento, probabilmente originale, tratto dalla pala con S. Margherita d’Antiochia, di Bevagna è la tela (155 x 121) di Andrea Camassei (1602-1649), rara testimonianza dell’attività del pittore umbro a Roma dove è presente dal 1626 circa nella bottega prima di Domenichino e poi di Sacchi. A Bevagna, suo paese natale, aveva iniziato presso Ascensidonio Spacca. La tela del convento della Vallicella raffigura soltanto la santa nell’atto di ricevere la corona e la palma del martirio, cioè soltanto un particolare della grande pala eseguita dall’artista per il convento di Santa Margherita di Bevagna, intorno al 1640. E’ plausibile ipotizzare che sia stato un dono agli Oratoriani dello stesso Camassei, largamente attivo a Roma sotto il patronato dei Barberini e amico di Pietro da Cortona, forse nella speranza di ricevere qualche commissione, negli stessi anni in cui vi lavorava il cortonese. Andrea comunque doveva conoscere bene la Vallicella perché nel 1627 le monache della chiesa di Santa Margherita gli avevano commissionato, per il loro altare maggiore, una copia della pala di Guido Reni nella cappella romana di S. Filippo, contornata da alcune storiette con episodi della vita del santo, nell’occasione di aver ricevuto da Roma una sua reliquia [13]. Della sua consuetudine con la Chiesa Nuova è testimonianza anche una variante del dipinto di G.F. Guerrieri (1613) con i SS. Carlo e Filippo che recitano l’uffizio, donato dalla famiglia Mattioli agli Oratoriani di Bevagna (oggi Bevagna, Pinacoteca Comunale). È noto da alcuni documenti che il Camassei eseguiva copie su commissione [14]: si veda ad esempio la copia della S. Orsola del Lanfranco (1622-1623), a Roma, in Palazzo Barberini. (Fig. 3)

Ancora una copia da Lanfranco è il S. Carlo Borromeo in adorazione della Vergine realizzata da Carlo Cesi (1626-1686). Il dipinto (65×52) è stato pubblicato per la prima volta nel catalogo La Regola e la Fama come opera di “ambito di G. Lanfranco” dal Ferrara; ma nel testamento inedito di Pietro Boncompagni (1663) si legge: <Un quadro piccolo rappresentante San Carlo Borromeo avanti l’immagine della B.ma Vergine con alcuni angeli quale è stato ritratto dal Sig. Carlo Cesi dall’originale del q. Giovanni Lanfranco> [15]. Fig.4
La citazione archivistica oltre a fornirci il nome dell’autore della copia ci da anche alcuni elementi per la datazione: ante 1663 anno del testamento, e verosimilmente tra il 1658, quando il pittore inizia a lavorare nel palazzo Boncompagni ed il 1663.
Ma vediamo più da vicino i protagonisti di questa inedita vicenda: Pietro Boncompagni Corcos (1592-1664) apparteneva ad una ricchissima famiglia ebrea della quale molti membri si erano convertiti al Cattolicesimo già all’epoca di San Filippo Neri e pertanto erano rimasti tutti molto legati all’Oratorio. Alla munificenza di Pietro si deve la costruzione della nuova sacrestia con la bellissima statua del Santo Padre, commissionata a Francesco Algardi nel 1640. Pietro, sposatosi nel 1644 con Sulpitia Della Vetera, acquistava un’altra porzione del palazzo, già di sua proprietà, sulla Piazza di Monte Giordano, sottolineando così il suo inscindibile attaccamento alla Congregazione. Nel 1661, in occasione delle nozze dell’ unica figlia rimastagli Maddalena, con il conte Filippo Camerata di Ancona, i lavori al palazzo già iniziati, proseguivano con l’affidamento a Carlo Cesi, allievo di Pietro da Cortona, della decorazione ad affresco degli interni, dove tra l’altro sono raffigurati San Carlo Borromeo e San Filippo Neri, che si svolse per circa un decennio dal 1658 al 1668 circa [16].
Sicuramente il tramite per la prestigiosa decorazione al pittore reatino fu Pietro da Cortona che conosceva molto bene Pietro Boncompagni, suo committente per gli affreschi del soffitto della sacrestia (1634) .
Si ritiene che il Cesi fosse venuto a Roma intorno al 1645 [17] e che due anni dopo fosse entrato nella bottega di Pietro da Cortona, divenendone uno degli allievi più devoti: oltre a ritrovarlo come aiutante nel 1657 nel cantiere cortonesco del Quirinale, va detto che tutte le sue commissioni più importanti le ottenne tramite il maestro. Dal 1659 al 1679 il Cesi risulta abitante nella parrocchia di San Biagio della Fossa, chiesa adiacente a palazzo Boncompagni Corcos, alle spalle della Vallicella. Durante gli anni in cui il pittore è attivo nel palazzo a Monte Giordano, deve aver ricevuto l’incarico di copiare la pala raffigurante S. Carlo Borromeo in adorazione della Vergine in cielo tra gli angeli, tratta dall’originale che Lanfranco aveva eseguito nel 1620 per la cappella Dralli nella chiesa di San Vittore a Varese (ora nella chiesa di S. Antonio alla Motta).
Pietro Boncompagni doveva aver veduto l’opera del Lanfranco prima che lasciasse Roma, ma certo non il Cesi che, per eseguirla, deve essersi servito di un bozzetto (perduto) del maestro emiliano [18]. Sicuramente per volontà del committente, nella piccola tela in questione fu omessa la figura di San Giuseppe.Nel confronto con l’originale la tela mostra alcune carenze, prima fra tutte il volto della Vergine, lontano dalla dolcezza espressiva e dalla morbidezza delle sfumature chiaroscurali del maestro, così come l’opacità dei tessuti, privi del frusciare serico delle vesti che il copista, per quanto capace, non è riuscito a riprodurre. (fig. 4)
Il documento relativo alla tela di Carlo Cesi apre una interessante parentesi su una antica consuetudine oratoriana: alla morte del padre Filippo, i suoi pochi beni ed alcuni quadri vennero divisi tra i confratelli che, a loro volta, li avrebbero lasciati alla Congregazione, salvo poche eccezioni. Ad esempio, nel testamento del Baronio (1607) [19] è elencato, tra i quadri di sua proprietà, un Cristo con la croce. Nel testamento del P. Pompeo Pateri, del 22 gennaio 1622, si legge che aveva ricevuto dal Beato Padre “Il quadro di Nostro Signore che porta la Croce che sta nel camerino”. Non è escluso che si tratti dello stesso quadro [20]. Nel convento si conserva tuttora un Cristo porta croce derivato dal prototipo di Sebastiano del Piombo al Prado realizzato verso la fine del terzo decennio del Cinquecento, di cui sono note molte copie per lo più conservate in Spagna a riprova che l’originale doveva già trovarsi a Madrid nel XVI secolo. Anche la copia presente alla Chiesa Nuova è sicuramente di mano di un pittore spagnolo, ma derivata dal Cristo porta croce oggi all’Ermitage di San Pietroburgo, eseguito per il conte di Sifuentes, tra il 1531 e il 1537. Si tratta di una delle opere più drammatiche dell’artista del suo ultimo periodo: tutto si concentra sullo spasimo fisico del Cristo che si fa carico delle sofferenze del mondo. Anche di questo dipinto si conoscono alcune derivazioni pure in controparte: quella di Luis de Morales alla Galleria Doria Phamphilj a Roma; altre copie sono presenti al Prado, alla Gemaldegalerie di Dresda, in alcune collezioni private e sul mercato antiquario. La copia cinquecentesca della Vallicella rivela, nonostante il mediocre stato di conservazione, la mano di un discreto artista di cultura spagnola e, in via dubitativa, si potrebbe supporre che sia uscito dalla bottega del Morales (1512-1586). (Fig.5)

Prosegue il Pateri:< Il quadro dell’Ecce Homo che sta sopra alla bussola in camera mia, sia per l’oratorio o per la sacrestia quando sarà capace; [21] gli tre ritratti, cioè di S. Filippo, et de cardinali si diano per la Sagrestia e uno per la Libraria. Il simile dico della Madonnina con le cortine rosse, il S. Antonio che sta sopra la scansia grande, il Beato Jacopone che sta nel camerino del Baronio. Il quadro della nostra Madonna grande che sta sopra alli tre ritratti, si mandi alle Monache di S. Maria delle Vergini, per tenerlo nel choro …; e alle medesime il quadretto che sta sopra al camerino de SS. Carlo et Filippo. Il S. Francesco con la cornice, cristallo e tendine rosse, che sta sotto la scansia grande, al Sig. Francesco Maria Marcheselli…; il quadretto della Madonna, Gesù et S. Giuseppe al P.re M.o Senso Sensi. Il quadretto di S. Carlo d’avolio piccolo che sta sotto la scansia piccola nella nicchia, al P.re Odorico Rinaldi; [22] il Crocifisso di bronzo alla sagrestia, come anco il Crocifisso piccolo di pittura con la cornice, che sta nel camerino all’inginocchiatori…; ci sono da cinque a sei quadretti con cornici, doi stanno nel camerino, che sono li SS. Ignatio et Filippo, et altri che stanno nelle scatole bianche piccole, alli Padri Prepositi e Deputati Assistenti pro tempore…; il Crocifisso d’argento con cristallo et cortine rosse alla Sagrestia, che si farà…; l’orologio piccolo che sona che fu del S.to N.o P.re Filippo, quale comprai doppo la sua morte per venti scudi, già è promesso per il med.mo prezzo al P.re Odorico Rinaldi. La mostra grande da tavola, alla Sagrestia, poiché mai si ferma, et gli mantiene gli anni senza mai haver bisogno di mastro, purchè sia maneggiata con destrezza da una man sola”. (Figg. 6/7)


Purtroppo della maggior parte delle opere elencate nel testamento del Pateri si è persa ogni traccia o comunque è praticamente impossibile la loro individuazione.
E’ difficile spiegare la presenza nel convento oratoriano del Ritratto del beato Nicolò Albergati, monaco certosino e cardinale. Incisa della Rocchetta ipotizza che sia stato inviato da Bologna da Alfonso Paleotti, nipote del cardinale Gabriele, grande promotore del culto dell’Albergati, alla Chiesa Nuova con cui aveva avuto stretti rapporti; questa ipotesi, per quanto suggestiva, non trova conferma nelle date, troppo precoci, di Alfonso Paleotti (1531-1610), rispetto alla probabile datazione della nostra tela post 1633. Ferrara, nella scheda di Soprintendenza (1992) aveva attribuito la tela alla cerchia del Passignano. (Fig.8)

Il dipinto (cm 134 x 100) è una copia, tratta dall’originale eseguito da Bartolomeo Cesi (1556-1629) per la Certosa di Maggiano (SI), eseguita, a mio avviso, da un anonimo pittore emiliano, nel secondo quarto intorno del Seicento. Bartolomeo Cesi ebbe una lunga consuetudine con l’Ordine Cistercense di Bologna come dimostrano i numerosi ritratti di monaci da lui realizzati, presenti a Bologna nella chiesa di San Girolamo alla Certosa, a Firenze nella Certosa del Galluzzo ed a Siena in quella di Maggiano. E’ possibile che la copia sia stata realizzata da un allievo bolognese del maestro post 1633 quando, per ordine di Urbano VIII vennero riesumate le spoglie del monaco- cardinale. Il beato è raffigurato al centro della tela nell’abito bianco dei certosini; tiene nella mano sinistra un grosso volume, mentre con la destra mostra un cartiglio con l’iscrizione, poggiato sul tavolo su cui è un crocifisso; dietro è presente il cappello cardinalizio.
B. NICOLAVS CARTVS/ CARDIN. ALBERGATVS/ EPISC. BONON. S.R.E./MAJOR POENITENT/TVM AD ALIOS ATQVE/ ALIOS PRINCIPES CVM/ AD CONCIL BASIL LEGAT/ AETAT. ANVM LXVIII/ AGENS OBVIT SENIS/ AD KAL MCCCCXLIII DIE VIIII/
Il beato Nicolò fu figura di grande spicco nella storia della Chiesa nella prima metà del XV secolo: proveniente dalla nobile famiglia degli Albergati, a diciotto anni era entrato nella Certosa di Bologna di cui nel 1407 era diventato priore; nel 1417 fu eletto vescovo della città felsinea e cardinale nel 1426, con il titolo di Santa Croce in Gerusalemme, dove è presente un suo ritratto. Fu penitenziere maggiore e legato al Concilio di Basilea; gli fu dato l’appellativo di Cardinalis pacis per le sue grandi doti diplomatiche. Per sua volontà fu sepolto nella Certosa del Galluzzo (FI).
Del beato si conoscono diversi ritratti tra originali del Cesi, repliche di bottega e copie realizzate nella prima metà del XVII e quelle dipinte nel XVIII secolo dopo la sua beatificazione (1744).
Ovviamente dietro tutti questi dipinti ci sono gli originale di Bartolomeo Cesi: dopo il lungo soggiorno a Roma negli anni del papato sistino, nel 1591, rientrato a Bologna, aveva affittato dei locali presso la Certosa, per la sua bottega. Nel 1594 è documentata la sua presenza nella Certosa di Maggiano, momento in cui quindi si colloca cronologicamente il ritratto da cui è derivata la nostra copia. Sebbene, nei primi anni della sua attività, avesse dimostrato attenzione per il manierismo emiliano e romano, successivamente, con la frequentazione del Passarotti, aveva acquisito un nuovo verismo soprattutto nei ritratti, optando per uno stile più sobrio ed antimanieristico, decisamente controriformato, come sottolineano le stoffe pesanti e corpose ricadenti con profonde pieghe, definite da un morbido chiaroscuro. La severità del suo nuovo linguaggio pittorico si accompagnava ad una sobrietà di costumi e ad un sostenuto decoro. La sua pittura risulta sfrondata da quanto non sia finalizzato ad una lettura devota, con l’unico proposito di essere esclusivamente uno strumento di propaganda religiosa. Così i suoi “monaci”, rivestiti di grande modestia, rivelano forme paludate e quasi monotone: tutti elementi che sono ben evidenti anche nelle repliche e nelle copie.
Secondo il Malvasia, il Cesi aveva lavorato più volte per la famiglia Albergati: nel 1591 è documentato il perduto Ritratto di cavaliere; poi negli anni 1612-1615 lo troviamo nel palazzo di Ugo Albergati a Bologna, dove esegue anche il suo ritratto. Probabilmente di sua mano doveva essere anche un’altra tavola con il Beato Nicolò per la Certosa di Firenze, ricordata dal Malvasia, ma non rintracciata.

Molto probabilmente è opera autografa del Correggio (1489 c.- 1534) la piccola tela (cm 43×34) raffigurante Cristo coronato di spine. (Fig.9)
Risulta da una nota del 26 luglio 1691 che in origine il dipinto si trovava nella collezione Aldobrandini per passare poi in quella del cardinale Facchinetti dalla quale pervenne a P. Sebastiano Resta che lo donò alla Congregazione:< Cristo coronato di spine del Correggio. Era degli Aldobrandini; poi del Sig. Card. Facchinetti, da me Sebastiano Resta donato qui con condizione che non si possa vendere che per scudi 500, rimettendo però qualche poco d’arbitrio al sagrestano, che il prezzo impegherà per S. Filippo, come stimarà meglio. Questo dì 29 luglio 1691 Sebastiano Resta, testimonio me Francesco Ignazio Gentili e me Marcello Cugnoni>. Sia la provenienza da P. Resta, grande intenditore d’arte, che la “condizione” e la stima dimostrerebbero che il quadro non è una copia come si riteneva, bensì un’originale uscito dalla bottega del famoso artista. A proposito dell’Allegri è interessante un’altra notizia del 1665 dalla quale si apprende che i Padri dell’Oratorio desideravano alienare un quadro del maestro, in loro possesso, raffigurante La Fortuna :< tabulam imperfecte depictam et rappresentantem Fortunam>, senza il beneplacito apostolico, in quanto lo ritenevano di scarsa qualità, non finito, e per giunta raffigurante un soggetto poco consono ad un convento. Tornando al Cristo coronato di spine, è noto che il Correggio dipinse più volte questo soggetto: si vedano ad esempio il Cristo del The P. Getty Museum di Los Angeles (inv. 94.PB.74), l’Ecce Homo della National Gallery di Londra ed un altro esemplare , sempre a Londra, in collezione privata. Indubbia l’alta qualità dell’esemplare della Chiesa Nuova, anche se i colori risultano offuscati dall’ossidazione della pellicola pittorica. Unico è infine il modello, con la rappresentazione del solo volto in primo piano.
La bella tela raffigurante il Compianto ai piedi della croce (cm 136×91) potrebbe ritenersi, con un buon margine di probabilità, di mano di Francesco Vanni (1563-1610). (Fig. 10)

L’opera, che si conserva negli ambienti del convento, dovrebbe risalire agli ultimi anni del Cinquecento quando l’artista, presente a Roma, realizza il piccolo ritratto del Baronio dal vivo. L’attribuzione si basa su stringenti confronti stilistici con altre opere certe di quegli anni: ad esempio il topos della “Madonna svenuta ai piedi della croce” si ritrova nella Crocifissione del Kunsthistorisches Museum di Vienna e nella Deposizione dalla croce del Duomo di Perugia, memore del Barocci, mentre la figura di Giovanni Evangelista, a braccia aperte alzate, ritorna nella pala della chiesa di San Giorgio a Siena. Altro elemento iconografico ricorrente di ascendenza senese è la croce posta in diagonale, derivata da opere del patrigno Ventura Salimbeni (1568-1613): si vedano ad esempio la Crocifissione per la sacrestia della chiesa di Sant’Agostino a Roma e quella per la chiesa di Sant’Agostino a Foligno. Il Baldinucci ricorda che Francesco Vanni aveva dipinto per la Vallicella “Un Cristo morto”, probabilmente per il Baronio: non è escluso che questa testimonianza faccia riferimento al dipinto in questione. Il Baglione inoltre scrive: ”Il cardinale Baronio propose Francesco Vanni, il quale trovavasi in Siena, e prima haveva avuto con esso lui amicitia, e alla Chiesa Nuova praticatolo, avanti che egli fusse cardinale et in gratia di Sua Eminenza fu al Vanni l’opera conceduta”. Il Baronio fu eletto cardinale nel 1597; è noto che aveva commissionato a Francesco Vanni la pala per Sora con l’immagine della Madonna della Vallicella.
Seguono ora una serie di quadri tutti di soggetto mariano, particolarmente caro, come è noto, a S. Filippo Neri. Alcune di queste opere, databili al XVI secolo, dovrebbero essere appartenute allo stesso santo, anzi alcune certamente, ricevute in dono da vari personaggi gravitanti nell’ambito religioso e culturale dell’Oratorio. Tra i dipinti più antichi troviamo una bella copia tardo-cinquecentesca della Sacra famiglia di Francesco Salviati (da alcuni ritenuta di Jacopino del Conte o di Perin del Vaga), conservata al Prado ma originariamente all’Escorial (1574) nella collezione di Filippo II. Si tratta di un’opera sicuramente appartenuta a Filippo Neri e presente nelle sue stanze, infatti nell’inventario dei beni del Padre Filippo (1595) è così descritta <Madonna col Bambino morto in braccio>; ed infatti pur sbagliando, l’anonimo estensore della lista, ha ritenuto morto il bambino dormiente, con il corpo completamente abbandonato sul grembo della madre. Di discreta esecuzione, la copia potrebbe essere uscita dalla bottega dell’artista e risalire all’ultimo quarto del Cinquecento. (fig. 11)


Alla prima metà del XVI secolo si data la Sacra Famiglia (olio su tavola, cm 110 x 70) qui ritenuta della bottega di Bernardt van Orley (1495 c.- 1541) su base stilistica, per confronto con opere certe del maestro fiammingo. (fig.12) Anche questa opera potrebbe essere appartenuta a San Filippo ma si ignora il nome del donatore e la data di ingresso nel convento. In verità raffigura Il riposo durante la fuga in Egitto perchè sullo sfondo di paesaggio a sinistra si intravede S. Giuseppe nell’atto di custodire l’asino. In primo piano, a tre quarti di figura è la Vergine, elegantemente vestita come una dama dell’epoca, con una preziosa acconciatura in testa costituita da un velo fermato da un filo di perle, con al centro un gioiello, oggetto presente anche in altre opere del maestro. La giovane Madonna tiene in braccio il bimbo nudo nell’atto di mangiare dei chicchi d’uva presi dal grosso grappolo appoggiata in basso a sinistra. Un confronto probante per l’attribuzione è la Sacra Famiglia di van Orley conservata al Prado, datata intorno al 1522, cronologia sostenibile anche per la tavola della Vallicella. Un altro elemento spesso presente nelle Madonne di van Orley, è il grande albero dietro le spalle della Vergine che crea un intermezzo con il paesaggio lontanante. Alcune incertezze, come la rigidità legnosa delle gambe e la posa innaturale del corpo del bambino suggeriscono l’intervento della bottega dove è documentato Pieter Coecke van Aelst (1502- 1550): si vedano ad esempio la Madonna che allatta il Bambino (ma anche questo un Riposo della fuga in Egitto) del Museo di Bruges dove ritroviamo lo stesso sfondo di paesaggio, il grande albero in primo piano e la piccola figura di S. Giuseppe, praticamente identica a quella della nostra tavola. Coeva al dipinto è la bella cornice in legno scolpito e dorato con motivi di tralci e grappoli d’uva. Nel 1988 un intervento di restauro ha permesso di rimuovere la pesante ed estesa ridipintura subita dalla tavola in epoca imprecisata, rendendo così possibile la lettura del pregevole originale. Siamo di fronte ad un esempio di come, senza alcuna ragione plausibile, si possa distruggere un bel dipinto con uno sconcertante rifacimento.
Nelle “Stanze di San Filippo” si conserva un altro Riposo durante la fuga in Egitto (olio su tavola, cm 105 x 70) opera di un maestro fiammingo da cercare forse nell’ambito di Herri Met de Bles (1510c.- 1560c.). Quest’opera è già sta pubblicata da chi scrive, come di “Anonimo fiammingo”, nel catalogo della mostra sui “Maestri fiamminghi” (2008). Da una prima lettura, la tavola rimanda alla cultura ferrarese di inizio Cinquecento ed in particolare a Benvenuto Tisi, detto il Garofalo (1476 c.- 1559), ma l’ignoto pittore non è riscontrabile tra i seguaci del maestro. Interessante esempio di “natura morta” sono il cesto con le fasce in primo piano, le pianelle della Vergine e il bastone con la zucca da viandante di S. Giuseppe, tipici della cultura d’oltralpe. I numerosi artisti fiamminghi attivi presso la corte estense influenzarono i pittori locali in specie per la pittura di paesaggio dai raffinati passaggi cromatici, in cui elementi fantastici e annotazioni naturalistiche si fondono con risultati di intensa suggestione. Di contro, la cultura pittorica del Garofalo non passò loro inosservata: ad esempio la figura della Vergine è ripresa dall’Annunciazione del maestro della Pinacoteca Capitolina (1528). La quinta architettonica, con le colonne binate, è presente in diverse opere del Garofalo, come ad esempio nella Sacra Famiglia con S. Caterina (1525) della Pinacoteca Vaticana. Oltre le colonne si apre un tipico paesaggio fiammingo, giocato su tenui verdi e celesti. La figura del vecchio S. Giuseppe, che dorme con la testa appoggiata alla mano, è un topos raffaellesco, usato spesso nella pittura emiliana del secolo. Non è facile spiegare la presenza della civetta appollaiata alla base delle colonne: per motivi stilistici andrebbe ricusata un’attribuzione a Herri Met de Bles, detto il Civetta, attivo a Ferrara dove soggiornò fino alla morte, solito dipingere l’uccello come sua firma, ma è possibile ipotizzare che l’anonimo pittore rientri nell’ambito della bottega del maestro. Si vedano ad esempio di Herri Met de Bles, il Riposo durante la fuga in Egitto del Kunstmuseum di Basilea e L’adorazione dei Magi del Croazia Zagabria Mimara Museum che l’anonimo seguace doveva conoscere. Nel nostro caso la civetta, “uccello notturno” ritenuto messaggero di morte, può riferirsi al tragico futuro destino del Figlio di Dio, sentimento peraltro evidente nell’espressione corrucciata di Giuseppe, in contrasto con il volo delle rondini nel cielo sereno, espressione della rinascita primaverile, con un esplicito riferimento al dualismo “morte-resurrezione”. Nel complesso il quadro, nonostante alcune durezze e incapacità come quella della resa delle gambe del Bambino in prospettiva, che risultano legnose ed innaturali, mostra le discrete qualità pittoriche dell’anonimo artista. In maniera del tutto dubitativa potrebbe farsi il nome di Pieter Coecke van Aelst (1502 c.- 1550) per il confronto con una tavola di sua mano, pressoché identica a questa della Vallicella, anche se la nostra è di qualità più modesta. Sicuramente la parte migliore è la figura della giovane e bella Vergine. (fig. 13)

Alla bottega del Bastianino (1532 c.- 1602) credo di poter ascrivere la Sacra Famiglia con S. Giovannino (olio su tela, cm 68×46). Viene raffigurato un soggetto particolarmente diffuso e ripreso da vari artisti, indice di un preciso vocabolario di immagini repertoriali destinate ad una committenza privata. Sebbene non rintracciato negli inventari del convento e quindi privo di qualsiasi documentazione, il dipinto è stilisticamente ascrivibile ad ambito ferrarese e più precisamente alla bottega del Bastianino intorno agli anni 1560-1570, anche per il probante confronto con il suo Riposo durante la fuga in Egitto della collezione Molinari Pradelli di Marano (BO).

La Vergine è realizzata con morbide pennellate che tendono a sfumare i contorni, il S. Giuseppe denota invece una certa durezza. La scena è ambientata in un interno dal fondo scuro, appena ravvivato dal drappo sull’angolo. La tipologia dei due bambini che si baciano, la grazia e la dolcezza degli atteggiamenti rimandano a modelli parmigianineschi, derivati da un soggetto di Raffaello, ripreso anche da Bartolomeo della Porta (Firenze, Galleria Palatina) e da Innocenzo da Imola (Berlino, Gemalde Galerie). Nella prima metà del Seicento riproposero questa particolare iconografia Lanfranco, Domenichino e Guerrieri. È ipotizzabile che la tela sia stata donata alla Congregazione dal cardinale tesoriere Jacopo Serra assai vicino alla Vallicella, che dal 1605 al 1623, fu legato di Ferrara. (fig. 14)
Di mano di un anonimo pittore attivo a Roma all’inizio del XVII secolo è la Madonna di S .Maria Maggiore ed i SS. Pietro e Paolo (olio su tela, cm 121 x 152). La tela raffigura la Salus Populi Romani tra i due apostoli di Roma. Si tratta di una tematica controriformata relativa alla devozione verso la Vergine e le sacre icone mariane intese come reliquie della tradizione paleocristiana. La veneratissima immagine era stata incoronata da Clemente VIII (1592-1605); durante il pontificato di Paolo V (1605-1621) Mons. Jacopo Serra (1613), per incarico del papa, la trasferiva sull’altare della nuova Cappella Paolina (1606-1613), entro una preziosissima cornice in bronzo dorato. E’ noto che il programma iconografico della cappella fu dettato dai padri oratoriani Tommaso e Francesco Bozio, con soggetti tratti dagli Annali del Baronio. Questo sottolinea inequivocabilmente il legame tra l’icona mariana e la Congregazione dell’Oratorio. Si deve ricordare inoltre che la famosa “Visita alle sette chiese”, ideata da San Filippo, si concludeva la sera del giovedì grasso con la visita a S. Maria Maggiore, davanti alla Vergine. L’immagine, vista come “icona-reliquia”, dimostra perché, già a fine Cinquecento, fosse stata scelta dai Gesuiti come immagine mariana per eccellenza e quindi divulgata a scopo devozionale su larga scala. Sebbene sia incline a datare la tela nei primi anni del secondo decennio del Seicento, cioè negli anni in cui si realizzava la cappella Borghese in S. Maria Maggiore, tuttavia non si può escludere completamente che essa avesse fatto parte delle opere appartenute a S. Filippo poiché nell’inventario post mortem è elencato <un S.to Pietro et S. Paolo, una Madonna> e quindi ante 1595.
La sola immagine dell’Odigitria era assai diffusa soprattutto a Roma dove è presente in diverse chiese mentre, con altri santi, si trova spesso nella pittura umbra della prima metà del 600, ad opera soprattutto di Ascensidonio Spacca (notizie 1589-1646). Un affresco, attribuito da Cannatà al Cavalier d’Arpino, presente nella chiesa di S. Maria delle Grazie a Calascio (AQ) e databile intorno al 1600 è tra le traduzioni più accurate dall’originale.Mentre l’arpinate ne fa una vera e propria icona severa e ieratica con voluto riferimento all’archetipo, l’autore della tela del convento della Chiesa Nuova apporta delle modifiche in specie di carattere naturalistico: la Madonna, avvolta nel morbido mantello blu, non è più un’icona, ma una madre che sorregge il suo bambino, entrambi con un’espressione di soave tenerezza nel volto, circondati da una luminosa cornice di nubi.

Questa idilliaca atmosfera pervade anche i due apostoli raffigurati ai lati, più in basso, nell’atto di guardare paternamente il santo bambino. I tratti stilistici rivelano la mano di un pittore forse d’oltralpe da individuare tra i tanti attivi a Roma in quegli anni. Si veda in particolare la resa calligrafica dei riccioli del bambino e dei capelli degli apostoli; non mancano tuttavia delle ingenuità, evidenti nel piede troppo lungo di Gesù, così come nella mano che tiene il Vangelo, chiari segni di una mano non eccelsa. Un’incisione conservata nell’Archivio della Chiesa Nuova (ACOR, Immagini, tav. XLIX) raffigura S. Filippo Neri in preghiera davanti alla Salus Populi Romani, realizzata probabilmente per il giubileo del 1600, conferma la venerazione del santo verso la sacra icona. (fig. 15)

Restando nell’ambito delle presenze “mariane” nel convento della Vallicella, desidero soffermarmi un momento sulla tela (130 x 110) raffigurante la Madonna col Bambino, venerata sull’altare della cappella privata del santo; il dipinto, di mediocre qualità, fu pubblicato da Incisa della Rocchetta nel 1969; è citata in un antico inventario, redatto alla morte del santo (28 maggio 1595) dai PP. Pompeo Pateri e Germanico Fedeli, riguardante gli oggetti presenti negli ambienti abitati da San Filippo: “Nel camerino. Una Madonna grande, con Christo in braccio, alla greca, che era del Signor Fabritio”; Il quadro quindi era stato donato dal nobile milanese Fabrizio Mezzabarba, vicino all’ambiente oratoriano dal 1574, morto nel 1586 e sepolto alla Vallicella. Quindi questa copia, derivata dall’originale duecentesco in S. Maria del Popolo, si deve datare con certezza ante 1586. Un’ altra copia, quasi identica alla nostra, ma di qualità decisamente migliore, è la così detta Madonna della Salute (Salus Infirmorum) che si venera nella chiesa della Maddalena, donata nel 1614 da una nobildonna romana. (fig.16)


All’inizio dell’Ottocento deve risalire l’ingresso nella quadreria del convento dell’ Immacolata Concezione di Tommaso Conca (1734-1822). Il dipinto raffigura la Vergine assisa su nubi, circondata da cherubi e angeli, con la corona di stelle intorno al capo e con il piede sulla luna rovesciata. Iconograficamente l’opera deriva da alcune immagini del Maratta, come ad esempio la grande pala della chiesa di S. Maria del Popolo o l’ovale della chiesa di S. Isidoro, soggetti da cui furono tratte varie incisioni. Per lo stile, il quadro sembra rientrare nell’ambito della produzione di Tommaso Conca, nipote del più famoso Sebastiano, autore di alcune belle Madonne, realizzate durante gli anni della sua lunga permanenza a Roma. Nella tela in questione Tommaso rivela già i modi della pittura neoclassica romana, evidente ad esempio nei colori meno accesi e nella testa dell’angelo in basso a destra che sembra derivare da una statua romana. Purtroppo lo stato di conservazione del quadro non è ottimale perché i colori sono scuriti e le vernici ossidate. E’ quasi certo che il quadro (cm 84 x 60) sia stato donato alla Congregazione da P. Giovanni Maria Conca (1785- 1858), figlio di Giacomo, anch’egli pittore; il religioso, entrato nella comunità nel 1805, è raffigurato in un ritratto di mano del padre, nella serie dei Prepositi della Vallicella, da datarsi intorno alla metà del XIX secolo. Stranamente il personaggio non veste l’abito dell’Ordine e mostra un’immagine della Madonna del parto che si venera nella chiesa di S. Agostino in Roma. Quanto alla cronologia dell’Immacolata, si propone una datazione all’inizio dell’Ottocento. E’ noto che Tommaso aveva realizzato un rame raffigurante S. Filippo in adorazione della Vergine col Bambino, con lo stemma del cardinale Innocenzo Conti. (figg. 17/18)
Nella quadreria della Chiesa Nuova si conserva la tavola (cm 40 x 58) opera della bottega di Francesco Rizzo da Santacroce (1494-1545) raffigurante il Congedo di Cristo dalla madre. Impostato compositivamente come una “sacra conversazione” il dipinto, sebbene in cattivo stato di conservazione (svelato e con estese ridipinture), può ragionevolmente essere riferito alla bottega di Francesco Rizzo da Santacroce, figlio del più noto Girolamo che si era trasferito ad inizio Cinquecento a Venezia, pur continuando a lavorare per i paesi dell’entroterra veneziano, ed in particolare nella provincia bergamasca. A Francesco vengono attribuite diverse Sacre conversazioni, derivate dallo stile del padre. Il soggetto della tavola in questione non è molto frequente: se ne ha tuttavia esempio in un dipinto conservato nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia, ritenuta copia veneta da un’originale della bottega dei Santacroce.

Evidente la derivazione belliniana del volto del Cristo da porre a confronto con il Redentore dello stesso museo. Le piccole dimensioni della nostra tavola la qualificano come opera di carattere devozionale. Non si hanno notizie pregresse che avrebbero potuto illuminare sulla sua storia e farci conoscere chi donò il quadro e quando alla Chiesa Nuova. (Fig.19)
A Marcantonio del Forno (doc. 1574-1581) Ferrara (1992) ha giustamente attribuito, nelle schede di Soprintendenza, la tela (cm 98 x 88) raffigurante la Flagellazione di Cristo. L’impianto iconografico è lo stesso, con alcune varianti, della Flagellazione dipinta dall’artista nella chiesa dell’Annunciazione a Zagarolo per i principi Colonna, derivato dalla Flagellazione di Federico Zuccari nell’Oratorio del Gonfalone (1573) dove il nostro anche lavorava. Il Cristo al centro della scena, è legato alla colonna che però non si vede, mentre i manigoldi lo fustigano. La scena è ambientata in un interno definito da un grande arco con colonne, terminante sul fondo con una finestra. Sicuramente la piccola tela in questione è un bozzetto preparatorio e non una derivazione dalla pala di Zagarolo perché mostra alcune significative varianti: in primo luogo la grande colonna al centro, forse riferimento al nome del committente, e le posizioni delle braccia dei due sgherri ai suoi fianchi. Il suo stile mostra canoni espressivi ormai ampiamente diffusi nella cultura pittorica romana, con importazioni dalla Toscana e dall’Emilia, dell’ultimo quarto del Cinquecento.

Tipica della sua cifra stilistica la corposità della pennellata, l’uso di colori accesi, i passaggi netti privi di sfumature, elementi tuttora abbastanza evidenti nonostante l’ossidazione delle vernici. E ipotizzabile che Marcantonio abbia eseguito la tela negli anni della sua permanenza al Gonfalone. Il dipinto potrebbe essere stato donato al convento dalla principessa Anna Borromeo, sposa di Fabrizio Colonna di Paliano e devotissima penitente di S. Filippo Neri; anche se non si esclude che potrebbe riferirsi al quadro la citazione archivistica “Flagellazione di Nostro Signore”, lasciata per testamento alla chiesa da Orazio Michi nel 1641. fig.20
Il bel San Giovanni Battista della bottega di Pier Francesco Mola (1612-1666) dovrebbe essere entrato nel convento della Chiesa Nuova quale dono di Bonaventura Argenti (1620c.-1697), famoso cantore pontificio, abitante di fronte alla chiesa nel periodo dal 1638 al 1697 e strettamente legato alla Congregazione che, alla sua morte, avvenuta nel 1697, lasciò erede universale. Il musico era legato da stretta amicizia al Mola che per la sua collezione dipinse numerosi quadri. L’agiatezza derivatagli dalla fortunata carriera gli permise di coltivare la sua passione per l’arte con la creazione di una raccolta “borghese”, ma comunque di pregio, formata in prevalenza da opere acquistate direttamente dai diversi artisti presenti a Roma in quegli anni. Il Pascoli, nella biografia del Mola, scrive : <Fece… diversi quadri per Bonaventura Argenti che era suo grande amico>. Di recente la Gaspari ha pubblicato il testamento con annesso inventario dei beni dell’Argenti; in questo elenco tuttavia non è citata la tela in questione perché probabilmente donata alla chiesa, mentre il musico era ancora in vita. L’inventario riporta il nome dei destinatari “padroni e amici” di alcune sue opere: <Lascio alli PP. della Chiesa Nuova il mio cimbalo, il Ritratto di Pico della Mirandola dipinto in tavola del Mantegna, un quadro di S. Filippo Neri di quattro palmi, copia del Pomarancio>. A Padre Resta lasciava <due ritrattini, uno di una monaca, l’altro di un ragazzo con la coppola… di Parmigianino>.

L’attribuzione a Pier Francesco Mola del San Giovanni Battista si basa su stringenti confronti stilistici con opere certe. La fisionomia è vicina al Bacco della Galleria Spada, dipinto negli anni ’50, così come i grandi occhi, la fossetta del mento, la posizione del braccio ad indicare il cielo ed il panneggio corposo ed ampio. In effetti questo S. Giovannino, non è l’emaciato profeta del deserto, ma un giovane e bel semidio. Agli stessi anni o poco oltre, cui propongo di datare anche la tela in oggetto, appartengono il Bacco di Palazzo Chigi di Ariccia, il S. Giovanni Battista della pala d’altare della chiesa di S. Anastasia (1655-1659) e il Bacco e Arianna dell’ Herzog Anton Ulrich Museum di Braunschweig (1659-1663). Nel 2010 tuttavia è comparso sul mercato antiquario ( Milano, Christie’s) un identico dipinto attribuito a Lanfranco, abbiamo già visto i contatti dell’artista con la Vallicella, così che , a questo punto si potrebbe avanzare l’ipotesi che il S. Giovannino in oggetto sia una replica di bottega del pittore parmense o una copia di buona fattura. Purtroppo , anche in questo caso, il nostro giudizio si basa sulla lettura del dipinto non restaurato. Fig. 21
Tra i ritratti dei Prepositi della Congregazione, raffigurati a mezza figura, tutti della stessa misura e per la maggior parte eseguiti da mediocri pittori, due, di inizio Seicento, meritano una riflessione. Il bel Ritratto del P. Antonio Gallonio (1577-1605), tra i più importanti personaggi della storia oratoriana dei primi decenni, nonché primo biografo di San Filippo Neri, induce a cercare l’anonimo autore tra i migliori pittori attivi alla Chiesa Nuova ad inizio secolo.

Stilisticamente, si veda la morbidezza dell’incarnato, lo sguardo profondo e l’espressione assorta del grande studioso, il tutto evidenziato da un alone di luce sul retro della testa che fa emergere la figura, illuminata quasi frontalmente, sul fondo completamente nero del quadro, la tela rimanda ai diversi ritratti del santo eseguiti da Cristoforo Roncalli. Sebbene non vi sia traccia nei documenti, in via del tutto ipotetica, si propone il nome dell’artista largamente attivo dalla fine del secolo precedente alla Valpolicella. fig.22
Il Ritratto di P. Adriano Massarelli, perugino, entrato in comunità nel 1597 e morto nel 1619, si discosta dalla serie, per la luce radente proveniente da sinistra che taglia di netto il fondo alle spalle della figura. Il volto scavato, sottolineato dalle profonde occhiaie e dalle ombre sulla guancia, la mano nervosa che tiene il segno nel libro di preghiere, che emerge , come una “ natura morta” dal nero della tela, rimandano allo stile di G. F. Guerrieri (1589-1657) attivo a Roma dal 1606 circa al 1620; pertanto il ritratto deve datarsi entro questi anni. E’ noto che il pittore marchigiano è l’autore del dipinto I SS. Carlo Borromeo e Filippo Neri recitano l’uffizio, documentato nel 1613. Sebbene siano piuttosto rari suoi ritratti ufficiali (nel 1621 esegue il Ritratto del P. Benedetto Passionei), tuttavia lo stile dell’artista si rivela da diversi piccoli particolari: si è già accennato all’uso delle ombre scure sulle guance e sulle tempie, gli occhi infossati, il ricciolo delle narici, la stesura accurata e calligrafica del volto, con ampie zone di colore veloce sulla scura imprimitura della tela. Tutti questi elementi ricalcano, in maniera palmare, il viso di S. Filippo, nel suddetto quadro. Fig.23

[1] Per l’eredità Brugiotti si rimanda a Archivio Congregazione Oratorio Roma (= ACOR) B. VI,18, Eredità , c.1 .
[2] Lanfranco, negli anni in cui era impegnato a S. Giovanni dei Fiorentini risulta aver testimoniato in atti relativi alla canonizzazione del Neri.
[3] L’affresco, in mediocre stato di conservazione, fu staccato nel 1824 e trasferito a Madrid al Prado, dove tuttora si trova.
[4] A. Costamagna, in Roma Sacra, 10, Roma 1997, p. 53. M. Francucci, Giuseppe Puglia, il Bastaro, Firenze 2014,pp. 180-181. La pala di Faenza passò post 1828, nella Pinacoteca Comunale; questa data è riportata da Pepper (S. Pepper, Guido Reni, l’opera completa, Novara 1988, n. 118, tav. 109). C.G. Cavalli, Guido Reni, Firenze, 1955, tqv. 134, scheda n. 16, p. 84, dove è pubblicata la foto della pala prima che andasse distrutta.
[5]H. Bodmer, Studienuber die bolognesische Malerei del 18 Jahrhunderts, in Mitteilungen des Kunst. Istit.in Florenz , 1939, p.88
[6]C. Malvasia, Felsina Pittrice (1678), ed. 1971, pp. 337-408
[7]F. Scannelli, Il Microcosmo della Pittura (1657), ed. Bologna 1989, p.352
[8]Collezione Conte di Plymouth, Oackley Park-Shropshire; Parigi , Collezione privata; Parigi, Vendita Dufourney, 1819; Christies, 12.10. 1951, n. 84. Purtroppo non è stato possibile rintracciare le fotografie di queste opere.
[9]Si veda E. Negro – M. Pirondini, La scuola di Guido Reni, Modena, 1992, n. 254.
[10]Da Rubens a Maratta. Le meraviglie del Barocco nelle Marche, c.m. a cura di V. Sgarbi, Milano 2013, p. 96.
[11]Si ipotizza che la pala oggi alla Vallicella provenga da una chiesa filippina perché Reni aveva lavorato più volte per gli Oratoriani: nel 1614 aveva dipinto la tela per l’altare della cappella di S. Filippo alla Chiesa Nuova; per gli oratoriani di Napoli nel 1622 aveva realizzato tre quadri e nel 1631 un S. Francesco in estasi; a Perugia per la chiesa della Congregazione aveva dipinto una Immacolata Concezione e quindi nel 1625, per la chiesa della SS. Trinità dei Pellegrini, la grande pala dell’altare maggiore.
[12] Malvasia, op. cit., ed. 1971, pp. 364, 400
[13] Si veda S. Nessi, Andrea Camassei. Un pittore umbro del Seicento tra Roma e l’Umbria, Perugia 2005, p. 79 fig. 5.
[14] A. Sutherland Harris, Acontribution to Andrea Camassei studies, in “The art bulletin” 52, 1970, pp. 51-52.
[15]D. Ferrara, in La regola e la fama, c.m. Roma, 1995, pp.108-129, fig. 114. Per l’attività artistica del Cesi si rimanda a AA.VV. Carlo Cesi pittore e incisore del Seicento tra ambiente cortonesco e classicismo marattiano, Rieti, 1987.
[16] Per Palazzo Boncompagni Corcos si rimanda a E. Uttaro- L. Gigli, Palazzo Boncompagni Corcos a Monte Giordano, Roma 2003.
[17] Forse la data dell’arrivo a Roma del pittore si deve anticipare al 1642; infatti in una ricevuta di pagamento in data 13 marzo 1642 si legge: “aM.o Carlo Cesi scudi dieci moneta per un quadro di San Filippo da donarsi al Sig. Avvocato Carboni”, in ACOR, Ricevute 1642, n. 96.
[18] E. Schleier pubblica il disegno preparatorio in Lanfranco, un pittore barocco tra Parma, Roma e Napoli, Milano 2002, scheda n. 49.
[19] In ACOR, A V., 18.
[20] Il Pateri ricorda anche “una piuma ch’io feci fare apposta in Milano di finissima piuma, acciò che il Nostro Santo Filippo se ne servisse nel verno, come fece…”.
[21]La sacrestia nuova si stava iniziando a costruire.
[22]La citazione fa riferimento al preziosissimo orologio da tasca appartenuto al Neri e tuttora conservato nel convento, tra le sue reliquie. E’ opera rara di Giovanni Maria Barocci di Urbino del 1563, come documentano la sigla e la data. L’officina del Barocci, attiva tra Urbino e Pesaro tra il 1550 e il 1650, ottenne grande fama per la produzione di strumenti di precisione ed orologi. A questa famiglia appartenne il famoso pittore Federico, artista particolarmente stimato da S. Filippo che gli commissionò due pale d’altare per la Chiesa Nuova. Purtroppo oggi della vasta produzione della bottega urbinate si conoscono pochissimi esemplari tra cui l’orologio in questione. L’oggetto, di forma ovale ( mm. 64x51x25) tuttora perfettamente funzionante, ha la cassa in argento dorato decorata con incisioni a frutti e grottesche; presenta il movimento in ottone con scappamento a verga e sistema di compensazione della tensione della molla , con suoneria delle ore su campanello. L’esterno della cassa ne fa un vero gioiello: sul recto è la mostra con le ore in numeri romani, su sfondo di smalto blu, con lancetta unica a stella con putte raggiate; sul verso è incastonata una medaglia in argento raffigurante la Madonna della Vallicella. Si veda A. Lenner, La scuola di Urbino: gli orologi rinascimentali italiani, dai Barocci ai Camerini, in La misura del Tempo, a cura di G. Brusa, c.m. Trento 2005, pp. 221-227, 457, cat.153 dove l’orologio è studiato esclusivamente per il suo meccanismo e non come oggetto d’arte.